sabato 13 luglio 2013

LA MANUTENZIONE DELLE PAROLE




Vorrei parlare, a esperimento concluso,  dell’ Officina delle Parole - il laboratorio attraverso cui ho avuto il privilegio di  lavorare sulle parole insieme a delle splendide persone.  

Se leggevo in giro di qualche scrittore che organizzava un seminario per insegnare ad altri le tecniche della scrittura,  me ne stavo alla larga. Ho sempre diffidato di chi pretende di farti diventare quello che non sei, o quello che sei già senza bisogno di lui.  Poi una persona mi ha messo una pulce nell’orecchio: guarda che nei laboratori  non si creano degli scultori o dei pittori, ma degli artigiani. E poi, se tu non ti vedi come apprendista della parola non significa che altri non vogliano esserlo.

E’ stato questo linguaggio artigianale a convincermi, e abbiamo organizzato un Laboratorio sull’uso delle parole. La scuola trasmette l’idea di una distanza accademica tra chi insegna e chi apprende. Il laboratorio è un luogo nel quale tutti gli apprendisti si cimentano con la stessa materia, compreso il “mastro artigiano”: che non si limita a indicarti come si deve fare una cosa e valuta i tuoi progressi , ma si cimenta nella tua stessa prova e con il tuo stesso tempo a disposizione, e mette in comune a tutti il risultato del suo tentativo. Mostra, più che spiegare.
 
 

Il linguaggio è materia insidiosa, perché alla portata di tutti. Non tutti dipingono, scolpiscono o suonano uno strumento musicale. Invece, tutti parliamo e soprattutto tutti scriviamo. Provate a pensare un attimo a quanto tempo della nostra giornata usiamo  scrivendo sms, tweetando, dialogando su facebook, usando what’s app.  La lingua con la quale comunichiamo viene forgiata, modificata e trasformata da ognuno di noi giorno dopo giorno. Io non sono un purista, non ho puzza sotto il naso. Non penso che la lingua stia peggiorando per forza, e sono anzi favorevole all’effetto positivo che le contaminazioni sempre depositano sulle forme della cultura diffusa. Si deposita anche tanto materiale di scarto, tanta roba che merita di essere elaborata, riconosciuta ed eliminata, ma dopo averla metabolizzata, non prima.  

La nostra Officina ha metabolizzato tanta roba. Ogni apprendista ha portato il suo materiale grezzo, in taluni casi magmatico, in altri disordinato e vulcanico, oppure dotato di un’intrinseca eleganza quasi involontaria. Abbiamo cercato di ricondurre le variegate modalità espressive al rispetto di alcuni principi comuni, ma senza intaccare lo stile personale di ognuno di noi: anzi, il lavoro che abbiamo cercato di fare nei nostri nove incontri è stato precisamente quello di fare emergere il nostro stile, a volte nascosto dietro fronde di parole istintive, imprecise.

La nostra bussola è stata la ricerca dell’ accuratezza. Scrivere era vissuto da molti come un esercizio istintivo, una sorta di polaroid dei propri stati d’animo. E’ stato proprio richiamandomi alla passione di alcuni apprendisti scrittori per la fotografia, che ho cercato di trasmettere il concetto per cui lavorare sul materiale grezzo, definire i dettagli, elaborare attraverso stadi successivi le immagini era la maniera migliore per centrare l’obiettivo di comunicare quell’idea, quel sentimento – esattamente quello che un paio di questi brillanti fotografi fanno con le loro foto: affreschi di semplicità ottenuta attraverso un gran lavoro di inquadrature, di filtri, di “trucchi”.

Come accade quando le cose vengono bene, ho ricevuto molto più di quello che ho dato. Non parlo solo del patrimonio di umanità ed emozioni, impagabile. Parlo anche dell’aspetto tecnico: tutto il lavoro di limatura e la serie di suggerimenti che mi sono permesso di inserire, come un flusso, anche tra un incontro e l’altro mi saranno utili per quello che riuscirò a scrivere in futuro. Non so se saranno utili anche ai miei compagni di strada, a me di sicuro. E chissà che un distillato di questo magnifico laboratorio di inizio estate non possa trovare la propria confezione autunnale: artigianale, naturalmente…     

    

mercoledì 24 aprile 2013

OFFICINA DELLE PAROLE

Non esiste una formula per creare uno scrittore. Come per un pane fatto in casa, se gli ingredienti di base sono di ottima qualità il risultato sarà buono anche se il panettiere è un autodidatta. Il mondo, peraltro, non ha bisogno di altri scrittori. Detto questo, il mondo sarebbe un posto migliore se le parole fossero spese con sobrietà e pulizia.
E' una misura di igiene mentale. Ci sono avvocati, politici, imprenditori, sindacalisti e scrittori che lavorano con parole stomachevoli. Le parole sono importanti, e possono essere profondamente fastidiose. Fare un mestiere di parole ed usarle male è un delitto e meriterebbe una pena severa.  Imparare ad usare con dignità la parola scritta ed arrivare a creare qualcosa di pulito è lo scopo dell' Officina delle Parole.





Sotto un profilo tecnico, l’obiettivo di questo piccolo laboratorio artigianale è quello di perseguire l’accuratezza nella scrittura.  Cercheremo  di avvicinarci progressivamente alla descrizione più accurata di quello che abbiamo in mente, o da qualche altra parte. Questo comporterà lavoro e concentrazione, che utilizzeremo per allontanarci da descrizioni sciatte. Un’altra cosa da cui ci terremo alla larga sarà lo sperimentalismo fine a sé stesso. Non siamo nelle condizioni di  azzardare modi alternativi per catturare l’attenzione di chiunque ci vorrà leggere o ascoltare. Quindi lavoreremo sulle tecniche di base per una scrittura limpida e chiara, il che non significa banale oppure priva di personalità. Tutto il contrario, se sarà possibile.
Scrivere significa dire la verità: la propria verità, naturalmente. Il vantaggio della scrittura creativa è che si può far dire la verità ai menzogneri.  Le cose inconfessabili sono spesso raccontate da grandi peccatori, farabutti e mentitori incalliti di nostra creazione. Qualcuno ha detto che l’accuratezza è l’unico principio morale della scrittura, e noi lo sottoscriviamo.   




Il luogo in cui faremo questa esperienza è importante. E' essenziale che sia un luogo aperto, suggestivo, tiepido e profumato. E che ci siano a disposizione generi di conforto: un caffè, una bevanda serviti da un locandiere artista. Il luogo è il Giardino interno di Palazzo Schifanoia, a Ferrara.
Officina delle Parole. Per nove sabati mattina consecutivi, a partire dal 18 maggio 2013.
Info e iscrizioni: 3480066024





sabato 20 aprile 2013

SUICIDIO DEMOCRATICO

La morte di Berlinguer ha rappresentato l’ apice del consenso raccoltosi attorno al partito storico della sinistra italiana. La morte fisica del suo leader ha simbolicamente inaugurato la lunga agonia del partito che si chiamava comunista. Una trentennale agonia squassata da tanti colpi di coda, da tanti scatti d’orgoglio, da tante speranze e illusioni. Un’agonia calda, pulsante e dolorosa, nutrita anche in queste ore dalla fatica, dedizione ed amarezza di tanti militanti ed amministratori che ce l’hanno messa tutta per dare nuova linfa ad un partito che oggi, stremato ed impazzito, ha deciso di togliersi la vita.





Molte le pugnalate che il PD si era auto inferto fino ad oggi, ma la pervicacia suicida con la quale si è accanito contro sé stesso negli ultimi giorni della sua esistenza lascia sgomenti. Come se non ne potesse più di perdere elezioni già vinte, di avere tante posizioni quante le assemblee di condominio del quartiere Prenestino, di cambiarsi il nome verso semantiche sempre più innocue, annacquate, eteree, il Pd a un certo momento ha deciso di aprire il fuoco contro il suo stesso corpo, inteso non solo – ma anche - come corpo elettorale.
Dopo aver cercato, fino quasi all’ umiliazione, l’accordo di governo con il Movimento 5 Stelle senza trovarlo,  la gente che vota e sostiene Grillo ha offerto al PD un assist gigante, una palla solo da spingere in porta: ha indicato come candidato al Quirinale Stefano Rodotà.
Non mi sovviene una personalità politica più vicina al PD e nello stesso tempo più autorevole verso l’esterno. Infatti Rodotà è stato anche Presidente del PDS, ma è stato sostenitore di battaglie civili come quelle contro la privatizzazione dei Beni Comuni; ha studiato l’effetto sulla legislazione civile – in particolare quella sulla privacy – delle nuove forme di comunicazione sociale e liquida. Un ottantenne che nell’immaginario politico fa la figura di un ragazzo: curioso, appassionato e non compromesso. Grillo – che per la foga da Savonarola scazza spesso le uscite -  lo aveva accusato di rubare il superstipendio da Garante della Privacy. Ma quando la gente di Grillo, la sua gente ha candidato Rodotà a Capo dello Stato ha dovuto rimangiarsi l’insulto.



Non solo. Ad un certo punto Grillo dice una cosa impensabile fino a pochi giorni prima: se il PD vota Rodotà assieme a noi, si aprono delle praterie per il governo.
C’era solo da spingerlo in porta quel pallone. Il PD, attraverso il suo incredibile segretario, decide allora di prendere la palla che balla sulla linea di porta avversaria e comincia a correre con essa verso centrocampo, per allontanarsi a gambe levate dalla possibilità di vincere qualcosa.  E candida Marini assieme a Berlusconi. Naturalmente Marini viene trombato, perché Marini è come una pacca nell’acqua, oltre ad essere un vecchio sindacalista cislino ricopertosi d’oro al punto da comprarsi una casa di lusso nel centro di Roma – a sconto, peraltro.
Allora Bersani decide di tirarsi una sventagliata di mitra sui genitali: proponiamo Romano Prodi. Tutti tranne Rodotà – così per ripicca, perché l’hanno proposto i grillini, perché noi siamo noi e voi non siete un cazzo – ma soprattutto, tra i tutti, Romano Prodi. Per fare cosa? Per farlo impallinare da Massimo D’Alema, che lo odia, e da quella parte del PD che vorrebbe Rodotà.
A questo punto Bersani annuncia le dimissioni. E qui sta il capolavoro: anche da fantasma, da zombi politico riesce a sparare a quello che ancora si muove dopo la strage, e costringe Napolitano a disfare gli scatoloni per fargli fare un governissimo con Berlusconi. Esattamente l’incubo di quelle persone che lo hanno votato. Esattamente quello che aveva spergiurato come impossibile, osceno.


Osceno è l’aggettivo. Un osceno, ridicolo suicidio. Anche in questo sta l’inciucio: nel rendere entrambe le parti altrettanto oscene e ridicole.   

mercoledì 27 marzo 2013

VIGLIACCHI A FERRARA

Oggi a Ferrara un tristo manipolo di “sindacalisti di polizia” ha partorito un’idea geniale: andare sotto la finestra dell’ufficio dove lavora la mamma di Federico Aldrovandi a manifestare solidarietà ai poliziotti condannati per la condotta colposa che causò la morte di Federico, suo figlio. Con tutti i posti dove potevano andare per manifestare la loro sinistra vicinanza, hanno scelto di sfilare sotto il naso della madre del ragazzo. 
La mamma di Federico allora è scesa in strada per affrontarli, da sola, in mano una foto del figlio con il volto tumefatto dalla violenza subita. Una madre che ha perso un figlio giovane in questo modo non ha più paura di nulla. Non c’è più nulla a questo mondo che possa spaventarla, perché la cosa più spaventosa le è già accaduta. Figuriamoci se può intimorirla un gruppuscolo di figuri come quello che sporcava oggi, coi suoi passi luridi, le strade di Ferrara.



Loro invece si sono spauriti. Le hanno voltato le spalle, ma non era disprezzo. Era paura, terrore di guardare il faccia il dolore, il dolore di un figlio morto. Paura di affrontare il dolore di una madre. Naturalmente erano tutti maschi. Questi  loschi individui colpiscono di nascosto, all’ombra delle loro tristi bandiere concepiscono le loro misere iniziative. Sicuramente qualcuno di loro ha figli, che non invidio.
Non mi interessa cercare di capire perché lo abbiano fatto. Normalmente sono interessato a cercare di comprendere le motivazioni che stanno dietro ai comportamenti umani, anche i più scellerati. Ma non in questo caso. Qui non c’è nulla che meriti di essere indagato. Non c’è nulla che abbia a che fare con una qualche forma di solidarietà di corpo. L’unica cosa che mi sento di precisare, a proposito delle panzane che circolano tipo “solo i poliziotti stanno in carcere per un delitto colposo”, è che questi non starebbero in carcere, se almeno se ne fossero stati tranquilli dopo le due sentenze che li hanno condannati.
Macché: hanno continuato ad insolentire, ad infangare, a vilipendere le vittime di questa tragedia.  Sono diventati ostinatamente indifendibili, perché hanno voluto con tutte le loro forze esserlo. Indifendibili. Non c’è basso stipendio o scarso addestramento o turni pesanti o stress che reggano di fronte a cotanta protervia. E allora che paghino il loro debito. E che i vigliacchi che sfilano sparuti per le strade in loro nome, che costoro siano inghiottiti dalle fogne, inseguiti dal Sindaco. 

domenica 20 gennaio 2013

LANCE ARMSTRONG'S TRUMAN SHOW

Perché Lance Armstrong è stato incastrato solo adesso, a carriera finita? Si è dopato con cocktails di sostanze proibite per tutta la sua carriera sportiva, ed in tutto quel lungo arco di tempo è sempre risultato pulito. La ragione principale non è chimica. Quando si parla del sistema che lui e suoi collaboratori avevano messo in piedi come del più professionale e sofisticato sistema di doping, non si parla solo di chimica. Si parla di politica, di potere, di rapporti. Lui e la sua squadra erano protetti. Quando un controllo rischiava di incastrarlo, si faceva in modo che fossero controllati altri, non lui.







In mezzo a tanta gente mediocre che conferma la sua mediocrità nell’infamare Armstrong adesso  - la stessa gente che ci ha campato sopra prima, nel ciclismo e nei media - uno come lui continuerà a svettare come un gigante. Perché molta gente lui l’ha aiutata davvero e non con le parole, ma con l’esempio. Battere un cancro ai testicoli con tre metastasi e ritornare più forte di prima non sono chiacchiere, è un esempio grande come una casa. Lui però confessa a Oprah Winfrey che quell’episodio non è stato solo, come ha sempre detto, “la cosa più bella che mi sia capitata nella vita”, ma anche uno spartiacque negativo. Ha cominciato a impostare tutte le sue sfide sportive come aveva impostato la sfida al cancro, e per sconfiggere il cancro tutti i mezzi sono leciti. Ha detto in sostanza che il cancro lo ha reso un integralista, un fanatico della vita e delle sfide. Tutti i mezzi sono leciti per perpetuare quella vittoria, per eternarla simbolicamente per lui e per tutti quelli che credevano in lui. Coloro che hanno parlato di una confessione di pura maniera e convenienza non hanno colto la drammatica importanza umana di questa affermazione.   
Per un altro verso, la sua storia ti rende paranoico.  Se tutti gli attori di questo Truman Show hanno fatto la loro parte nella costruzione di scena; se tutte le voci dissonanti sono state tacitate con facilità in questi anni, significa che qualunque perfetta rappresentazione    Armstrong stesso ha usato quest’espressione – ci può essere venduta come reale. Ed in fondo è questo che interessa alla società della comunicazione: venderci storie edificanti e verosimili. E fino a che gli enormi interessi di tutti gli attori di questa rappresentazione convergono, esiste una capacità mostruosa di “tenere tutto sotto controllo” – un’altra delle ossessioni di Lance. L’errore dell’attore protagonista è stato voler tornare in scena da protagonista, quando la compagnia teatrale aveva già deciso l’avvicendamento nel ruolo. A quel punto Armstrong è diventato un elemento di disturbo, e la macchina che lo aveva protetto gli si è rivoltata contro con la medesima spietatezza che, quando era al suo servizio, gli confermava ogni giorno la sua natura di superuomo.
Il superuomo diventa un uomo. Dagli altari alla polvere, una parabola frequente ma mai così fragorosa, così abissale, così vertiginosa.  Dovrà essere un bravo uomo, più di quanto bravo è stato come atleta – perché è stato un grande atleta.  Soprattutto per riconquistare i suoi figli.     

venerdì 28 dicembre 2012

DON PIERO IL CALIFFO DI LERICI

Finalmente!  Basta con le migliaia di anni di guerre pie e sante combattute in nome della rasatura al suolo degli infedeli, di quelli che credono in un dio minore, non rivelato, impostore; basta con le Crociate coloniali di eserciti che, nel nome di Cristo, soffocavano nel sangue la presunta invasione musulmana del mondo; basta con le jihad proclamate dai califfi e imam, esegeti autentici della parola del Corano contro l’Occidente cristianizzato e corrotto, che armano le anime di giovani suicidi bombaroli islamici forniti di brillanti curricula universitari ad Harvard.


Finalmente un uomo ha riunito sotto un comune denominatore le religioni rivelate. Finalmente un uomo ha messo d’accordo bigotti  e stupratori di ogni risma, religione e colore, rendendo anacronistica ogni contesa bellica per la preminenza dell’Islam sulla Cristianità o, viceversa, ogni evangelizzazione forzosa nel nome del Padre. Quest’uomo ha l’inestimabile merito di avere finalmente riunito dentro lo stesso alveo le grandi tradizioni affluenti della fede umana, mai incontratesi ed anzi sempre ottusamente combattutesi . La grandezza di quest’uomo sta nell’aver mostrato, con l’evidenza di una rivelazione, la radice comune alle due grandi religioni – una comune radice talmente evidente da non essere colta, come quando cerchi in tutti gli anfratti e i nascondigli, senza trovarla, una cosa che hai lì, davanti al naso: il disprezzo per la donna.       
Don Piero, parroco di San Terenzo, ha detto e scritto sulla porta della sua Chiesa che le donne che vengono violentate ed ammazzate se la sono cercata. Le sgualdrine vanno in giro praticamente nude, per cui non si possono lamentare se poi l’uomo le stupra o le fa fuori. L’uomo, beninteso, non l’omo, come quel giornalista che, chiedendo a  Don Piero il Califfo di precisare il suo pensiero, se l’è cercata come le sgualdrine: e si è beccato del frocio. Tecnicamente l’ uomo che, alla vista di una donna succinta, non nutre pensieri omicidi.
Don Piero il Califfo si è difeso dicendo che le sue idee non sono sue – affermazione di modestia che non fa che accrescerne la grandezza. In realtà lui non ha fatto che citare le tesi di Pontifex, un autorevole sito di cattolicesimo col cilicio hardcore. Ci sono andato, sul sito Pontifex: non riuscivo più ad uscirne. Ad un certo punto ho attivato sul pc la procedura per chiudere i programmi: si sono chiusi tutti, tranne Pontifex, che anzi fagocitava le altre pagine. Ho dovuto spegnere. Un fulgido esempio di integralismo liquido: se entri in me non uscirai più, neanche se vuoi.
Il capolavoro finale della Chiesa, che la prepara ad un’inopinata fusione con la fintamente ostile tradizione islamica, è la sua attuale ignavia. E’ Don Piero il Califfo che deciderà del suo destino: di sé dice di avere forse bisogno di riposo, ma che non smetterà l’abito talare.  Lo aspettiamo in politica: sempre se deciderà di spretarsi. Sua sponte, naturalmente.

martedì 11 dicembre 2012

L'ENERGIA DEL PADRE E LA RESA DEGLI INSEGNANTI





Lo stato di salute presente e prossimo venturo della propria nazione si misura bene, a mio avviso, dallo stato della sua pubblica istruzione.
Mio figlio frequenta il liceo. Ha qualche problemino ma complessivamente va benino. La sua carriera scolastica attuale può riassumersi, in effetti, dentro il suono odioso di un diminutivo: benino. Eppure la sua multiforme intelligenza sarebbe pronta ad esplodere, se solo trovasse una miccia. Sotto questo profilo l’energia del padre(e della madre)può fare qualcosa, diciamo: qualcosina. Ma per varie ragioni, tra cui il fatto di essere il padre nell’età in cui il padre si abbatte o comunque si combatte, il padre non può essere la miccia. La miccia può essere un professore. Un docente, un educatore. Uno, o una, che avesse l’energia di trascinarti dentro il gorgo della sua materia, al punto da farti assaporare per la prima volta il gusto del sacrificio, necessario per grattare la superficie opportunistica del voto sufficiente o scuotere l’indolenza del tedio.
Non ne ho trovato uno. Sono un illuso? Di sicuro, sono un deluso. Alcuni sono tecnicamente padroni della materia e tanto gli basta, altri sono severi come sempre sono stati e sempre saranno, altri pretendono un impegno che non restituiscono ed altri ancora si sforzano di spiegare un paio di volte, sempre allo stesso modo, qualcosa che lo studente ha detto di non avere capito – lo dice due volte, peraltro, perché dalla terza volta l’incarico di spiegarlo viene affidato a qualche compagno bravo, che minaccia il compagno tonto: zitto e taci, non ho più voglia di uscire fuori per colpa tua.
Quello che non ho trovato è la passione. Pretendo troppo, dite? Pretendo troppo da una categoria di professionisti sottopagati, precarizzati, non formati e non premiati? Può essere. In realtà una l’ho trovata, e le ho chiesto di usare l’intelligenza emotiva per parlare coi ragazzi, ma anche con i suoi colleghi, che mi sono sembrati spaventosamente arresi. Mi ha detto che ci proverà, ma che non posso pretendere che un docente insegni ad un ragazzo quello che la scuola non ha mai insegnato a lui: la pedagogia, l’empatia. I professori sono laureati in una materia, stop. Questo sono, mi ha detto con disarmante naturalezza, come enunciando una legge fisica. E lei? Le ho chiesto. Io mi sono formata da sola, mi ha risposto.
Anch’io sono andato al liceo. Non è stata una passeggiata e non mi ha salvato(anzi) da un anno buono di depressione, e non cadrò nella trappola di dire che trent’anni fa era meglio, perché è un discorso nostalgico da persona anziana, ed io non voglio essere una persona anziana. Però mi ricordo, in mezzo a molta mediocrità, anche di una manciata di docenti imperfetti, umani troppo umani, pieni di simpatie ed antipatie ma genuinamente appassionati, a volte ossessionati, dalla loro materia, fino al punto da farmene appassionare, o addirittura ossessionare.  Nessuno gli aveva insegnato la pedagogia, a questo manipolo di pazzi che hanno segnato la mia adolescenza. Adesso non ne vedo in giro, di pazzi come questi. Se però ne conoscete qualcuno, presentatemelo. Io e mio figlio ne avremmo un gran bisogno.